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Diario di Bordo (Quarta parte)

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CLIMA E VESTIMENTA

Ho la fortuna di vivere in una località con un microclima particolare; il mare a sud ed i monti a nord permettono alla Liguria di godere di estati non afose e di inverni temperati.
Certo, questa conformazione orografica porta anche alcuni svantaggi: spinte dal vento di mare, le nuvole pregne di umidità, arrivando contro i nostri monti, sono costrette verso l'alto e, raffreddandosi -così- bruscamente, scaricano piovaschi anche intensi su tutto l'arco costiero.
Da qui la diceria, scherzosa, che a Genova piove solo due volte all'anno: peccato che ogni volta vada avanti sei mesi!
Un altro fastidio è, invece, rappresentato dalla tramontana, che spira gelida e tenace nell'inverno e potente in autunno e primavera, anche se ben accetta perché permette al sole di mostrarsi e lasciarsi godere dalle nostre stanche ossa; riassumendo, potremo dire che Genova è una città ventosa, soggetta a piogge anche molto intense che, però, vengono prontamente asciugate da un sole tiepido anche nei mesi più freddi.
Personalmente, ricordo fresche giornate di luglio e giornate trascorse al mare, in costume da bagno, perfino in gennaio(*). Concludo la parentesi climatica ricordando che, a Genova, il termometro raggiunge raramente lo zero e molto di rado supera i trentacinque gradi e che, inoltre, il tempo può mutare radicalmente anche più volte nell'arco della stessa giornata.
Ammetto che questo inizio molto inglese (tipico, per gli abitanti del Regno Unito, dissertare sul tempo), è un modo piuttosto alla lontana per affrontare il discorso sull'abbigliamento, ma ho ritenuto utile darvi un quadro della situazione.
Parliamo di abiti, dunque; in queste lande sono abbastanza diffusi i giacconi impermeabili ed i classici trench, perfino nelle giornate di sole, vista l'imprevedibilità del clima, ma la cosa che mi diverte di più è notare quanta gente regola il proprio abbigliamento coi dettami del calendario anziché con i suggerimenti del termometro (e del buonsenso!): mi capita di vedere gente rabbrividire con la polo in giugno o schiattare dal caldo sepolti in paltò e maglioni degni delle eroiche spedizioni di Amundsen, mentre li incrocio, agile, con un golfino ed un giubbotto leggero.
E le pellicce, poi! Immagino la coorte di donne che amano vestire spoglie di bestia morta, spiare ansiosamente il calendario, maledicendolo per quel giorno X di ottobre che si ostina a non arrivare, privandole della -lugubre- gioia di esibire i trofei delle loro battute di caccia (a chi gli consente di comprarla o, addirittura, a chi arriva a fargliene dono!).
Mi capita spesso, nei dolci giorni di ottobre o maggio, con i termometri stradali che dichiarano imparzialmente una temperatura intorno ai quindici-diciassette gradi, di incontrare tronfie matrone, intabarrate in pellicce pesanti diversi quintali e calde come un agosto africano, sudate e congestionate in viso come se si fossero fatte la salita dello Stelvio, in bicicletta, con un rapporto da discesa.
Quando ero più giovane, amavo avvicinarmi a certe mie conoscenti impellicciate mormorando, con fare cospiratorio, "Attenta, quella pelliccia porta jella! So per certo che il primo proprietario ci è morto dentro!".
Ora, con gli anni, col placarsi del grande fuoco dell'impegno, evito queste provocatorie battute; anzi, ho imparato anch'io a tenere molto da conto una pelliccia: la mia!

(*) Esperienza fatta con alcune accortezze: dalle undici alle quattordici e trenta ed a ridosso di una scogliera. Comunque una piacevolissima esperienza, e non da fachiro!

 

ALI!

Io ho le ali. Non da executive, né da arcangelo, né da passero, ma ho le ali: piantate dentro la testa. Mi affascina tutto ciò che vola (salvo gli scapaccioni, voi capirete!) e, alle volte, sento come un prurito in corrispondenza delle scapole, proprio come se mi stessero per spuntare. Amo lo schiaffo salmastro del vento sul viso che provo in moto, sulle litoranee, e che mi fa pensare di essere un gabbiano, libero nel vento e nel sole, od il pilota di un fragile biplano di tanti anni fa. Ho la netta sensazione che saprei pilotare, pur non avendo mai provato, e, quando sento il rombo di un aereo ad elica, il sibilo di un reattore od il frastuono tambureggiante di un elicottero, è più forte di me: devo vederlo! Ho volato diverse volte, con sparuti monomotori caracollanti su brevi piste erbose, con fragorosi turboelica, con moderni reattori dagli interni nitidi ed essenziali, con emozionanti elicotteri liberi di alzarsi, scendere, sostare nel cielo, ripartire con un balzo, osservare, seguire, danzare nell'aria (come giovani zanzare, tanto per citare Ivano Fossati, un cantautore che amo) nella massima libertà.
Mi piace fermarmi ad osservare gli elaborati arabeschi tracciati dai jet contro l'azzurro del cielo, mi riempie di allegria vedere che una stella, lassù in alto, si muove sapendo che lì a poco potrò riconoscerne i fuochi -verde e rosso- di posizione e, quando sarà ormai dietro le mie spalle, ne sentirò il sibilo dei motori; se sono in spiaggia osservo con intimo piacere gli elicotteri della Guardia di Finanza, della Polizia o dei Carabinieri che, rombando a pochi metri dal pelo dell'acqua, sorvegliano il litorale; se l'elicottero, invece, è quello dei Vigili del Fuoco, so che qualcuno è nei guai e che l'unica speranza che può avere è indissolubilmente legata all'apparizione di quello snello velivolo bianco e rosso.
Se sono in Piemonte, ad accudire alle viti ed al vino della mia vigna, sono affascinato dalle evoluzioni a bassa quota dei Tornado dell'Aeronautica Militare, che coprono il centinaio di chilometri da Piacenza in una manciata di minuti: non li vedo, in quel contesto, come strumenti di morte, rovina e distruzione, ma solo come meravigliosi oggetti volanti, capaci di volare -col loro sistema automatico di navigazione radar-altimetrica- a pochi metri dal suolo, scavalcando le siepi e le linee elettriche a quasi mille chilometri all'ora.
La sera, poi, quando mi capita di andare verso casa e vedo, davanti a me, i fari di atterraggio di un aereo che sorvola la costa per posarsi all'aeroporto, so che -se sono all'incirca le undici- è il volo da Roma, l'ultimo volo di linea della giornata, e mi diverto a calcolare a mente se è in orario o con quanto ritardo arriverà.
Che poi, atterrare a Genova di notte, è un'esperienza che vale assolutamente la pena di vivere: l'aereo arriva sulla verticale del monte di Portofino ed entra nel cosiddetto sentiero d'atterraggio, una linea immaginaria -ma tracciata nitidamente dagli impulsi del radiofaro- che lo porterà, dopo un volo rettilineo di una quindicina di chilometri, a posare con esattezza il carrello all'estremità della pista strappata al mare.
Se il caso od il calcolo vi hanno portato a sedere sul lato destro del velivolo, vedrete sfilare sotto di voi i paesi del Golfo Paradiso: l'incantevole Camogli con le luci di Ruta sparse per tutta la collina soprastante, Recco totalmente ricostruita dopo i pesanti bombardamenti dell'ultima guerra -attirati dal suo alto e strategicamente vitale viadotto ferroviario-, la quieta Sori, Bogliasco con la piscina da pallanuoto proprio in riva al mare ed il suo arcuato ponte romano; poi gli estesissimi e dolcemente illuminati parchi di Nervi -e stiamo già sorvolando i sobborghi di Genova-, la strada costiera che si snoda lungo la riva frastagliata e le macchine che la percorrono con apparente lentezza, seguendo fedelmente il cono di luce dei fari, Corso Europa, appena più all'interno, con le sue corsie ed il suo spartitraffico illuminati di vivida luce gialla, monte Fasce con le sue luci bianche e rosse sulla vetta e monte Moro, appoggiato al Fasce, la cui sommità sfila alla vostra stessa quota, quattrocento e passa metri, e che è a poco più di seicento metri dal mare; poi i quartieri di levante, oscuri di giardini e parchi bui, le luci della litoranea che si riflettono sul mare, l'insieme disordinato dei padiglioni rosati dell'ospedale pediatrico Gaslini, la pacifica baia di Vernazzola e quella pittoresca e turistica di Boccadasse, la lunga promenade di Corso Italia con l'abbazia di San Giuliano e, alla fine, il Palasport e la Fiera, con Viale Brigate Partigiane -con le sue ampie aiuole a centro strada- che punta, come un dito accusatore, verso i monti, verso la stazione Brignole affiancata da due grattacieli; subito dopo la grande estensione di Piazza della Vittoria, frutto del razionalismo architettonico dell'epoca fascista col suo candido arco ai caduti. Più avanti, dopo la cupola illuminata della basilica di Carignano, comincerete a veder scorrere -appena sotto di voi- il porto, sfavillante delle luci delle calate e delle navi all'ormeggio, il grattacielo di Piazza Dante(*), i vari palazzi storici genovesi, illuminati in modo estremamente suggestivo, il ciuffo di grattacieli nati negli ultimi anni a far compagnia alla Lanterna, il tutto visto contro colline rifulgenti di migliaia di finestre illuminate, con le abitazioni arrampicate ardimentosamente fin sulle sommità.
Ormai pochi metri di quota vi separano dal livello del suolo e riuscite a vedere il viadotto dell'autostrada che scavalca agilmente la Val Polcevera, le ultime calate portuali ed gli altiforni dello stabilimento siderurgico, accanto al quale prenderete terra.
Se poteste avere una visione frontale vedreste, oltre le luci della pista, i mille lumi dei quartieri occidentali di Genova e, dolcemente inarcate verso sinistra, le macchie di luce che indicano le località sulla riviera di Ponente, fino a Capo Noli, con Savona al centro, vivida.
Ancora pochi istanti: vi sembrerà di atterrare in mezzo ai capannoni e sentirete, infine, lo scossone ed il brusco stridìo del vostro atterraggio, con i motori che urleranno per lo sforzo di fermare la massa del vostro velivolo e per la rabbia di non essere più padroni del cielo.
Poi, il lento spostamento del vostro aereo, forzato dalla mano del pilota ad abbandonare il suo essere lieve per diventare una sorta di ingombrante e greve veicolo terrestre, fino al piazzale, fino al parcheggio dove i piloti, seguendo la linea gialla davanti a loro, vi avranno portato insieme ad una cinquantina di tonnellate di metallo, plastica, merci ed umanità assortita.
Un segnale luminoso indicherà ai piloti il punto dove fermare il loro e vostro guscio non più volante e di arrestare i motori, mentre la loro memoria andrà alla figura -di appena ieri- dell'addetto al piazzale che, con le bacchette di segnalazione, indicava dove fermare, incrociandole, e con un gesto apparentemente brusco indicava di "tagliare" i motori, di spegnerli.
Le spie delle cinture si sono spente, vi alzerete nella confusione dell'arrivo e, con pazienza, arriverete al portello anteriore, contro al quale sarà posizionato il corridoio mobile che vi condurrà nell'aerostazione.
Dopo le procedure di arrivo, uscirete dall'aerostazione e potrete vedere come il riassunto di Genova: una fabbrica a destra, un'area portuale a sinistra e davanti a voi colline dove occhieggiano le luci delle abitazioni; più vicino a voi, un viale di palme e, proprio a pochi metri, un biplano SVA della prima guerra mondiale, orgoglio delle officine Ansaldo, in una teca di vetro che vi permetterà di valutarne l'apparente fragilità, con tutto quel legno e quella tela, ed il coraggio di chi, ottanta e passa anni fa, affrontava il cielo nel suo abitacolo aperto, così scarno e freddo rispetto al concetto di aereo che si è formato nella vostra mente oggi, quando la velocità di atterraggio di molti aerei è più alta della velocità massima di quel gomitolo di funi, legna e tela che, con stupore, state osservando.


(*) Stiamo parlando del più alto edificio di cemento armato in Italia, costruita in un paio degli anni '30 su progetto dell'architetto Piacentini.

 

 

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