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Diario di Bordo (Terza parte)

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DUE RUOTE DI LIBERTÀ

Il centauro, era una mitica figura col corpo di cavallo ed il tronco umano, anche gli antichi testi non si soffermavano in quale categoria rientrasse il cervello di questo strano essere; anzi, non vengono neanche sfiorati dal problema.
Oggi, per similitudine, viene definito centauro chi è mezzo umano e mezzo motocicletta. Sull'assegnazione del cervello alla parte umana od a quella equina, c'è divergenza di opinioni nel mondo attuale: per molti la parte in questione risente pesantemente della discendenza equina (nella fattispecie: testa d'asino!), per altri è da riscontrare il sospetto di un briciolo di umana intelligenza. Come in tutte le cose, il giusto è nel mezzo: i tanti motociclisti armati di buon senso vengono accomunati ai pochi idioti che, convinti di essere immortali, mettono a dura prova il destino e la tolleranza del loro prossimo.
Fatta questa premessa, vi metterò a parte del mio orribile segreto: sono un motociclista!
Quando ero ragazzo, la mia voglia di avere un veicolo -a due ruote, data l'età-, si era sempre scontrata con la feroce ed inflessibile opposizione della mia famiglia, fatta eccezione per la versione a trazione animale (leggi bicicletta), obiettivamente improponibile in una città ricca, stranamente, più di salite che di discese!
Per me il mezzo (ciclomotore, scooter, moto, auto), non era -e non è tuttora- lo strumento di prestigio sociale, l'indispensabile attrezzo per poter gareggiare con i miei amici (anche perché non ne ho mai avuti); era invece solo la maniera di avere quella mobilità che i servizi pubblici offrono solo disponendo di molto tempo e di infinita pazienza; era per poter andare in giro a vedere, capire, conoscere, placare la mia -elevata- irrequietezza puberale, per cercar di trovare -e coltivare- contatti umani, a volte perfino amicizie.
A diciotto anni, forse anche a causa della mia inesperienza, ho preso un autobus. Ero senza biglietto e l'ho preso col ciclomotore di un amico: in pieno. Ero così malconcio che mi hanno portato all'ospedale in quattro viaggi e, da quella volta, sono la dimostrazione che la medicina non è una scienza esatta: i medici avevano infatti pronosticato lugubremente che non sarei arrivato alla sera...
Dopo sei mesi d'ospedale ed il rabbercio di un numero elevatissimo di ossa ed ossicini (non sapevo di averne così tante. E tutte fratturabili, poi!), abbandonai l'idea delle due ruote per un paio di lustri e mi dedicai ad un grande amore: guidare (auto).
Nell'83 ebbi la ventura di scassarmi, ulteriormente, un ginocchio; ma questa volta era un dignitoso infortunio sul lavoro (che fa male come quando ti scassi facendo lo scemo sugli sci, ma la gente ti dice "poverino", anziché pensare "così impara a fare l'idiota").
Finito il lavoro con colla e scotch, il medico mi spedì a farmi seviziare da un feroce fisioterapista: ebbi, grazie a lui, l'occasione di ripassare tutto il mio catalogo delle parolacce (agguingendone due pagine nuove-nuove) e di maledire cordialmente il tipo che aveva però un grosso difetto: era un giocatore di football americano di taglia praticamente sconfinata: addirittura più grossa della mia (e vi assicuro che, se dico così, con la mia taglia, vuol dire che era veramente grosso!). Mi consigliarono, alternativamente, di procurarmi una cyclette e di pedalare come un matto; io mi immaginai in sella a questo destriero a percorrere entusiasmanti viaggi nell'angolo del tinello di casa e, conoscendomi ormai a sufficenza, capii che, dopo una settimana, mi sarei stufato. Così mi procurai una Bottecchia da turismo e, avvantaggiato dal fatto che in quel periodo abitavo alla Foce, zona di Genova notoriamente pianeggiante, iniziai a spedalazzare in giro.
Vinto il panico da traffico (il ciclista, per le caratteristiche del mezzo -vedi alle voci ripresa e freni- è l'utente della strada più a rischio di tutto il creato: il pedone può sempre allungare il passo o fare un salto indietro, un gatto infilarsi sotto una macchina in sosta...), arrivai a spingermi sempre più lontano, tanto che -quando tornai finalmente al lavoro- a volte coprivo la tratta da casa al lavoro, una decina di chilometri, pedalando solertemente (ed arrivando sempre con la lingua affettata dai raggi della ruota anteriore; avete mai fatto una salita immersi in una fitta nuvola di gas di scarico? Provare per credere!), con grande stupore e sollazzo dei miei compagni di lavoro.
Nel lontano ottantasei, io ed il cambio della mia auto avemmo un'incomprensione, che portò rapidamente ad una rottura (sua, totale!). Travolto anche da altri seri problemi, decisi di far riparare la macchina e, contestualmente, di procurarmi un ciclomotore d'occasione: per la modica spesa di duecentocinquanta biglietti da mille, entrai in possesso di un Boxer Piaggio prima serie (risalente, all'incirca, all'impresa dei Mille e sfruttato, molto sfruttato!).
Ricordo, tra tutte le avventure liete o meno vissute col mio Boxer (avventure che spesso mi vedevano portarlo -rigorosamente a mano!- dal meccanico), un... naufragio che facemmo, una mattina, sotto il diluvio universale (Parte seconda: La Vendetta!), con lui che si ostinava, pervicacemente, a non voler funzionare, lamentando l'annegamento della pipetta della candela.
Dopo circa sei mesi, mi trovai a fare un pò di conti: Il Boxer mi era costato, di riparazioni varie, circa settecentomila lire; il dubbio di aver fatto, da qualche parte, una fesseria cominciò a farsi prepotentemente strada in me...
Riuscii a radiare il Boxer rimettendoci solo trentamila lire (oltre alle famose settecentomila!) e potei così sfoggiare un Sì Piaggio rosso, nuovo di zecca (e con la pipetta ben stagna!).
Era così bello che, dopo due anni, mi lasciò fuggendo con un altro (ignoto) al quale indirizzai regolare denuncia ai carabinieri ed una fitta nuvola di maledizioni. Così mi ricomprai un altro Sì, stavolta color cannadifucile, che era ancora più bello dell'altro: impiegò solo tre mesi a scomparire!
Forse -pensai- se non fossero stati senza targa, mi sarebbero durati di più; così, dentro di me, cominciò a maturare l'interesse per un motociclo targato, analizzando seriamente le varie possibilità offerte dal mercato.
Prima di tutto: scooter o moto? Considerai il fatto che lo scooter è l'ideale per andare a lavorare, con le gambe ben riparate da freddo, pioggia e cadute, perfetto per muoversi in città: appunto! La mia pulsione di libertà, di movimento, sarebbe così stata limitata ad un ambito, al massimo, provinciale.
Quindi: moto! Ma che tipo?
Una affusolata stradale per sfrecciare in autostrada a duecento e swanzig chilometri all'ora?
Una scarna moto da trial, con la quale arrampicarsi su tutto, anche su per il tubo di una grondaia?
Una robusta moto da cross, perfetta per disimpegnarsi agilmente da tutti i problemi di fondo stradale(*)?
Una custom, con la quale rivivere l'epopea di Easy Rider? E chi se ne importava di Easy Rider! Ero troppo giovane, all'epoca del film, e poi, all'ombra della Lanterna, la cosa assolutamente impossibile è proprio montare facile (Montare motociclette, fissati che non siete altro! Che poi, a pensarci bene, anche per quella cosa lì... mica uno scherzo, da queste parti!).
Mi serviva una moto che andasse bene per tutto questo: viaggetti, strade sterrate (pensavo alle alture, lo giuro!), casa-lavoro e, con gli anni si cambia, anche quel briciolo di prestigio che la mia scassata giardinetta francese era molto lontana dal suggerire.
La soluzione al problema, quindi, è definita da una parola di sei lettere: Enduro! Che è la contrazione di Endurance, un tipo di gara motociclistica fatta di percorsi infami e di durata incredibile. Diciamo che in sella ad un'Enduro, e chiamandosi Eddy Orioli, si può anche pensare di vincere la Parigi-Dakar: ho reso il concetto?
Così cominciai a cercare un'Enduro di cilindrata moderata, diciamo sui 200 cc, onde menare in ogni-dove la mia imponente figura.
Dopo un paio di mesi, il meccanico (ramo moto) di un mio amico, mi telefonò avvisandomi di aver trovato una XL200 della Honda. La guardai fissa nel faro (lei contraccambiò con un ammiccamento abbagliante/anabbagliante) e le dissi: sarai mia! Il motore emise uno scoppiettio entusiasta e perfezionammo la nostra unione davanti ad un notaio.
Questo, però, dopo che ebbi un nerissimo presagio: girando per cercare questa mia futura mia moto, capitai in un grosso negozio dell'usato gestito da un mio ex vicino di casa (ancora dei tempi in cui preferivamo giocare coi soldatini che... con le bambole!), il quale si era, dall'età pubere in poi, fatto un nome come crossista. Poi, appesa la bardatura da gara al chiodo, aveva messo su famiglia, aveva il suo lavoro che amava eccetera, eccetera. Insomma, ci facemmo una bella chiacchierata sui tempi della nostra infanzia comune, su quello che avevamo combinato nella vita, sui nostri progetti ed aspirazioni e così via.
Mentre andavo dal notaio per regolarizzare l'acquisto, comprai il giornale (come ogni giorno che dio manda in terra e che non vede i poligrafici in agitazione) e, comodamente pigiato in autobus, mentre cercavo i capire cosa avessero combinato nel mondo, in Italia ed in città (sempre senza dirmi mai niente!) lessi una notizia che mi raggelò: il mio ex vicino di casa era morto. Stava andando a lavorare, quando ha perso il controllo del mezzo (appena superato un autobus, sembra a causa di un' auto che sopraggiungeva) e si era, allora, correttamente lanciato (se vi sembra una cosa sciocca, provate un pò a rimanere con una gamba sotto due quintali di moto, poi mi saprete dire!), ma era stato travolto dall'autobus, che lo aveva ucciso sul colpo.
Pensai che lui, che ci sapeva andare alla grande, in moto, era morto così... io che, invece, non ci sapevo andare per niente, che fine avrei fatto? Sono stato sfiorato dall'idea di tornare a casina, lo giuro, telefonare al meccanico e dirgli che avevo scherzato. Poi, però, mi dissi che ognuno aveva il proprio destino, che nessuno può sapere come e quando finirà la propria vita e che... beh, che diavolo!, avrei tenuto presente la tragica fine di questo amico e ne avrei fatto tesoro.
Così divenni il felice proprietario de La Rossa, la mia fantastica prima motocicletta con la quale mi sarei appiattito le natiche per trentatremila chilometri in ventitré mesi. Mi lessi attentamente, per prima cosa, il libretto Uso & Manutenzione dove, oltre ad imparare dell'esistenza di cose che mai avrei potuto sospettare che esistessero -e meno che mai potessero rompersi od avariarsi- trovai subito, nella prima pagina, le norme di comportamento: indossare sempre il casco ed allacciarlo sempre, rispettare la natura, vestirsi sempre completamente (maniche e pantaloni lunghi e guanti) e, sopratutto: "Il motociclista deve sempre guidare in difesa".
Sì, perché uno, in macchina, se arriva all'incrocio di una strada che ha lo stop, per esempio, e vede un'auto che rallenta, è autorizzato a presumere che questa si fermi; alla peggio... sono cavoli dell'assicurazione.
In moto, no! Bisogna cercare di prevenire il comportamento degli altri utenti del traffico, anche i più cretini (riferito sia ai comportamenti che agli utenti!).
Perché in macchina la gente chiacchiera, ascolta lo stereo, chiacchiera col telefonino, legge gli sms, ha i vetri appannati, dormicchia, di incavola, leggiucchia il giornale, si mette le dita nel naso, guarda l'ora, sbadiglia, si annoia, sbaglia i calcoli dei tempi e/o delle distanze -tanto "ci" ha l'assicurazione!-; insomma, fa tutto meno che cercar di capire cosa sta per combinare (e fa meno che nulla per evitarlo!). In moto, un tamponamento che non ammaccherebbe neppure il paraurti cromato di una vecchia giardinetta, ha ottime probabilità di farti finire in terra: se sei fortunato, ti rialzi solo con qualche livido ed un sano furore omicida...
Tornando alle mie prime esperienze di motociclista, ricordo due emozioni: la prima fu quando, perfezionata la parte burocratica dell'acquisto, mi misi per la prima volta in sella: il mio meccanico mi spiegò pazientemente la posizione dei vari comandi (passare dai tre pedali ed il gruppo-comandi intorno al volante di un'auto ai vari pulsanti, interruttori, leve e pedali sparpagliati sul manubrio e accanto al motore non è una cosa poi così immediata!) e concluse l'illustrazione (mentre una scritta lampeggiava psichedelica nella mia mente: non ho capito e non ricorderò NULLA!!!) spiegandomi che, nel cambio a pedale sulla sinistra, il folle è al centro, la prima è in alto e le altre quattro marce in basso. Sfidai la sorte e premetti il pulsante di accensione del motore: lui mi guardava con amichevole e perplessa curiosità; decidi di affrontare la sorte: tirai la leva della frizione e alzai il pedale del cambio finchè un attutito "clak" mi fece capire che la marcia era entrata.
Allora, con la cautela tipica di chi trasporta nitroglicerina, decisi di allentare la frizione dando al contempo gas; facendo così arrivai al momento in cui la moto si mosse; allora mollai del tutto la frizione ed accelerai, ascoltando il rombo sommesso del motore e spiando la lancetta del contagiri che scalava il quadrante sempre più avvicinandosi alla tacca rossa del fuorigiri.
Il mezzo si muoveva, era equilibrato e stabile ed il motore stava cominciando a far capire al mio orecchio -allenato da una ventina di anni da automobilista- che avrebbe gradito una marcia più alta: ricordo che pensai: "la prima l'ho capita; adesso proviamo le altre!". Così tirai d nuovo la leva della frizione, pestai sul cambio, mollai la frizione e la moto ebbe uno scossone in avanti, ma ormai ero motociclista!!!
La seconda emozione fu quella che provai la prima volta che seppi di aver oltrepassato il confine della provincia, trovandomi -addirittura!- in Piemonte... So che è una sciocchezza romantica, ma capii di essere, finalmente, libero.
Quell'inverno, particolarmente mite, sfruttai molto la mia motocicletta per esplorare Genova e dintorni, acquisendo anche quel giusto grado di confidenza con il mezzo meccanico.
Le rare giornate di brutto tempo -quando ovviamente ero libero da impegni lavorativi- lo utilizzavo, come mio solito, in compagnia di qualche buona lettura.
Dovete sapere che mi è sempre piaciuto leggere (ho una biblioteca personale così ampia da averne dovuto... decentrare una buona parte dei volumi in scatoloni, provvisoriamente parcheggiati in ventilate cantine ed asciutti box di conoscenti) ed amo anche, tempo permettendo, rileggere i libri: senza più l'ansia per i colpi di scena della trama, che riesco a ricordare per grandi linee, posso concentrarmi sullo stile, sulle descrizioni, sullo spessore dei vari personaggi.
Un giorno piovoso di fine aprile, mi capitò di rileggere Sette uomini all'alba, la ricostruzione fatta da Alan Burgess dell'attentato al generale delle SS Reinhard Heidrich (Reichprotector di Moravia e Boemia durante l'occupazione nazista della Cecoslovacchia), messo in atto a Praga da resistenti ceki con la supervisione e l'assistenza dei servizi segreti britannici.
Oltre a soddisfare il mio amore per la Storia (recente), il libro mi aveva incuriosito su questa remota città, che avevo sempre sentito definire meravigliosa, e mi aveva preso... il prurito di vedere di persona quei luoghi (così presenti alla mia mente attraverso le descrizioni e le fotografie), conoscere quelle genti (artefici, l'anno precedente; della cosiddetta Rivoluzione di Velluto, la più incruenta caduta di un regime comunista dell'Est), vedere la mitica Piazza San Venceslao, affrontare l'avventura di andare in un paese estero, all'Est, di cui non parlo la lingua, incontrando abitudini diverse dalle nostre, mangiando cose dal nome impronunziabile e dall'aspetto poco rassicurantemente esotico...
E poi, sopratutto: la Sfida! La sfida contro il mio destino, che parla di infortuni piccoli e grandi, contro quel frusciare del mantello della Grande Mietitrice che percepivo ogni volta che guardavo la Rossa; la sfida di quei milletrecento chilometri da solo, in sella, per unire Genova a Monaco di Baviera, a Pilsen, a Praga, con la sottile, impalpabile linea tracciata dai copertoni della mia moto sulle strade di una bella fetta d'Europa.
Verificai il passaporto, mi procurai gli indirizzi dell'Assistenza Honda in Germania ed Austria, feci revisionare la Rossa, comprai alcuni attrezzi, un pò di pezzi di ricambio, l'olio di scorta, le cartine stradali necessarie ed alla fine, all'urlo -romanticamente eroico quanto decisamente eccessivo- di "O Praga o morte!", partii la mattina del diciotto agosto.
Prima tappa (viaggiavo tranquillo, senza l'assillo di prenotazioni o di rigide tabelle di marcia): Brixen (Bressanone per gli italiofoni!); seconda tappa: Monaco, con l'affannosa ricerca di una camera in una città invasa dai visitatori di una fiera, per un esborso molto, dannatamente troppo prossimo ai cento marchi. Terza: Praga!
Questo viaggio, oltre che sulle strade d'Europa, era diventato anche un inatteso viaggio dentro me stesso. Immaginatevi sulle lunghe monotone autostrade padane e tedesche, in moto, da solo, senza lo stereo da ascoltare, senza il finestrino da alzare ed abbassare ritualmente, senza lo schienale del passeggero sul quale appoggiare il braccio, senza nient'altro da fare che guardarsi intorno, immersi nel paesaggio da protagonisti, senza esserne separati dal vetro e dalla lamiera dell'abitacolo di un'auto, spiando con ansioso interesse il movimento delle nubi temporalesche per cercare di capire se saresti restato asciutto e se ti saresti bagnato.
In quelle condizioni, con un piccolo, remoto cantuccio del cervello impegnato dai rari ma familiari problemi legati alla conduzione del mezzo, con il costante e rassicurante rombo regolare del motore (attutito dal casco), la mente gira liberamente, si lambicca, fruga nella memoria e ripropone volti, situazioni, frammenti di avvenimenti e, carognamente, anche quelle domande che, affacciandosi ansiose per una risposta, sono sempre state respinte nelle più remote sinapsi della materia grigia con un apparentemente annoiato, ma molto comodo, "poi ci penso, con calma".
Lì, in quel lì ubiquo, in continuo movimento sulle linee gialle simboleggianti le autostrade sulla carta d'Europa, in quel luogo statico (così statico da farti furiosamente stiracchiare ad ogni occasione) e mobile così tanto da farti sfrecciare l'asfalto della strada a cento chilometri all'ora ad appena una spanna dalla suola delle tue scarpe, la calma c'è, il tempo anche ed allora: quale migliore occasione per cominciare ad analizzare la domanda, a rivoltarla, a smontarla, a provare ad adattarla a qualche risposta, fino ad essere squassato dalla certezza: ho capito!
In virtù di questa auto-analisi, posso tranquillamente affermare che, da Praga (ed è stata ininfluente la destinazione, poteva andare lo stesso bene Busalla(*) come Bombay) è tornata una persona diversa da quella che era partita solo quindici giorni prima; forse, perfino un pò migliore...
Dopo la mitica Rossa -che sfruttai ben oltre le previsioni del signor Honda!- cercai un'altra moto, più adeguata a muovere la mia non piccola massa, pensando ad un 350 cc, ma il mio meccanico mi fece capire che era meglio un 650 cc: non usandolo sempre ai limiti, come il piccolo motore di una 200 od anche 350 cc, avrei ridotto l'affaticamento e l'usura del mezzo.
Fu così che mi trovai proprietario di un Dominator Honda, moto che pesava un paio di quintali ma, grazie alle mie lunghe gambe, abbastanza maneggevole anche nel traffico urbano.
Cinquantamila chilometri più tardi, capii che era giunto il momento di sostituirla; progetto che realizzai con la valida complicità del mio meccanico e procurandomi un altro "Domi".
Era una buona "macchina", ma in un lungo viaggio estivo -in due, con bagagli essenziali ma pur sempre per una 15na di giorni stipati nei tre bauletti esterni- aveva mostrato i limiti del monocilindrico: le vibrazioni ed il poco spazio per sgranchirsi sulla sella avevano sfinito me e la mia passeggera in una tratta di poco più di 200 chilometri, tra Messina e Palermo.
Così cominciai a manifestare il mio interesse per un altro enduro Honda: il Transalp.
Per una serie di fortunate combinazioni, ne trovai uno -sempre rigorosamente usato!- in ottime condizioni: dopo averne fatto verificare le condizioni da Gian, il mio mitico meccanico, mi trovai così entusiasta proprietario di questo ottimo mezzo, bicilindrico e raffreddato ad acqua. Il peso era salito di un'altra trentina di chili, ma la macchina era veramente notevole.
Circa un anno dopo, nelle stesse condizioni vacanziere di viaggio dell'incubo Messina-Palermo, io e la mia passeggera abbiamo affrontato una tratta di 360 chilometri (Villasimius-Cagliari-Olbia), arrivando appena un po' stanchi…
Purtroppo, però, gli anni passano e con gli anni arrivano gli acciacchi: il mio ginocchio sinistro, reduce di mille avventure e di diverse "messe a punto" in sala operatoria, mi mandava vibranti e dolorose proteste per quanto poco gradisse che usassi la moto anche nel freddo e nella pioggia dell'inverno.
Così, con la morte nel cuore, decisi alla fine del 1998 di radiare il Transalp, passando ad uno scooterone, un Foresight Honda.
Il mio prepotente ginocchio, adesso, mi lascia in pace, ma quanta voglia quando, nelle belle giornate, ne vedo uno fermo ad un semaforo!
Counque, trovo che affidare la propria sopravvivenza ad un mezzo meccanico instabile e delicato come una moto, sia un'ottima palestra per l'attenzione, l'accuratezza e la manualità.
In auto, si lasciano trascorrere ere geologiche tra due controlli della pressione gomme, ed un Pliocene intero tra un controllo dell'olio ed il successivo. In moto è tutto diverso: una gomma con la pressione non regolare od eccessivamente usurata ti può far disastrosamente cambiare traiettoria in curva; un motore -senz'olio- che grippa e si blocca di colpo ti può far arrivare solo all'ospedale, non potendo più governare il mezzo.
E la tensione della catena, l'usura di corona e pignone, lo spessore delle pastiglie dei freni, il chilometraggio dall'ultimo rifornimento di benzina (le moto nate prima del '95 sono, generalmente, prive di indicatore di livello del carburante...), la funzionalità delle luci, il serraggio di viti e bulloni, il peso e la distribuzione del carico, il colore e la grana (cioè l'umidità e l'aderenza) dell'asfalto che sta per sfilare sotto la nostra moto, la presenza di rappezzi o tombini o segnaletiche orizzontali (scivolosissime, se bagnate!); e le macchie d'olio, di carburante, la presenza di sabbia, ghiaietto, sale, foglie: tutte cose che, se si ambisce a diventare un vecchio motociclista, bisogna sempre tener d'occhio, prima o durante il viaggio.
Muoversi con un motoveicolo può essere, oltre che molto comodo nel traffico urbano, un'esperienza piacevole, persino esaltante, a volte, ma non bisogna mai dimenticarsi che il casco serve, sopratutto, a difendere un cervello...

(*) Considerata anche l'orrenda situazione del fondo stradale genovese, che sarebbe stato drammaticamente peggiorato, lì a poco, dai mitici cantieri della mitica Expo Colombiana (che avrebbero miticamente sbudellato Genova e l'avrebbero rivoltata come un calzino, ovviamente mitico, che diamine!), questa, a tutta prima, non sembrava poi una scelta così illogica!

(**) Non vi spiego dov'è Bombay per non insultare la vostra favolosa cultura. Busalla, invece, è una ridente località a pochi chilometri da Genova, appena oltre lo spartiacque degli Appennini, subito dietro il Passo dei Giovi.

P.S. Non mi è chiaro perchè si usa dire ridente località, ma chi sono io per sconvolgere le prassi consolidate? Comunque, non riesco a trovare un qualsiasi motivo perchè Busalla sia poi così ridente; forse, che so, soffrirà il solletico...

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